Ospedale Villa Chiara, Casalecchio di Reno, Bologna |
Le mie prime esperienze di ricovero
all’ospedale in Italia, negli anni ’80, mi fecero scoprire una curiosa
abitudine degli italiani, quella di tenere in fondo al cassetto del comò della
biancheria intima, un (magico) sacchetto con tutto il necessario per un
imprevisto ricovero ospedaliero o addirittura, in alcune zone del sud d’Italia,
per una eventuale fatalità. Il sacchetto
conteneva tutti indumenti nuovi o perfettamente puliti: un paio di mutande, canottiera,
pigiama, vestaglia, un asciugamano, ciabattine, e qualche tovagliolo, di
preferenza ricamato a mano. Tutto ciò affinché nessuno si dovesse preoccupare di
queste inconvenienze in caso di un’urgenza, ma soprattutto perché ossessionati
di fare sempre e dovunque “la bella figura”.
Non è stato facile per me
straniera acquisire questa abitudine. Spesso ho preparato volenterosa il mio
“sacchetto magico”, l’ho sistemato in fondo al mio cassetto in mezzo alla
confusione che di solito regna fra la mia biancheria intima. Ma puntualmente,
dopo un po’, incominciavo a prendere da lì qualche capo, in genere le mutande
che mi ripromettevo di sostituire al più presto possibile; ma, nonostante la
promessa, piano piano svuotavo il sacchetto e tutti gli indumenti presto
diventavano di uso quotidiano. Dentro di me speravo sempre di non dovere andare
in ospedale.
E invece no, diverse
volte dovetti ricoverarmi, grazie a Dio per cose abbastanza leggere. Così ogni
volta mi vedevo nella necessità di comprare cose carine da portarmi dietro e non
fare “la brutta figura”.
Qualche mese fa ho saputo
la data per un mio intervento al ginocchio sinistro in una clinica in Emilia
Romagna, perciò ho avuto tutto il tempo necessario per preparare il borsone con
l’abbigliamento giusto.
La sera prima dell’evento
sono partita insieme a mio marito e abbiamo alloggiato in un bel bed&breakfast,
molto carino e pulito, nelle vicinanze dell’ospedale. La cosa che più mi è
piaciuta del posto è stato aver trovato sul tavolo della stanza insieme ad una
bottiglia d’acqua e due bicchieri una specie di pacchetto di libri di poesia e
filosofia, legati da un nastro di raso formando un bel fiocco azzurro; questa è
stata una piacevolissima sorpresa!
L’appuntamento la mattina
dopo era alle 6:30 a.m. per fare l’accettazione, analisi ed elettrocardiogramma.
Eravamo una ventina di persone, alcune del posto, altre di Prato e io da
Firenze. Come prima cosa sono entrata nell’ufficio di un chirurgo ortopedico
collega del mio dottore, che vuole il caso fosse molto claudicante della sua
gamba destra, mi sono seduta e sono iniziate le domande. Mi ha chiesto: Lei
deve essere sottoposta ad un intervento di artroscopia al ginocchio destro? No!
Ho risposto io assai preoccupata, ginocchio sinistro e ho ribadito con forza
dicendo: iniziamo proprio bene! Il dottore, facendo finta di scherzare, mi
rassicura segnando il mio ginocchio sinistro con una grande x nera, così non
c’è maniera di sbagliare, dice per tranquillizzarmi. Una volta finite le
procedure per il ricovero, dopo una lunga attesa mi viene data la stanza. Mi
dicono di cambiarmi, tiro fuori la mia bella camicia da notte beige con
fiorellini blu e la vestaglia blu, non ho ancora finito di sistemarmi che entra
un infermiere. Con il suo allegro accento romagnolo mi dà il buon giorno e mi
chiede diverse cose: ha lo smalto alle unghie? No, rispondo io. Ha oggetti in
metallo? No. Indumenti intimi non di cotone? Sì. Allora li tolga, e via il
reggiseno e le mutandine (in questi tempi quasi tutti i vestiti hanno un minimo
di elastane!), per ultimo chiede: si è depilata l’inguine? No, gli dico, non lo
sapevo, nessuno me lo ha detto! Allora signora, mi dispiace ma devo prendere
provvedimenti, sempre con quella parlantina romagnola che mi ricorda Valentino
Rossi. L’infermiere ritorna con un telo e una lametta usa e getta, molto
dispiaciuto per quello che si attinge a fare, mi chiede di sdraiarmi sopra il
telo, mi dice che lui capisce che magari io avrei preferito farmi la ceretta
invece lui è costretto a usare la lametta così a secco, dice anche che andrà a
brontolare il mio dottore per non avermi avvisato di questa procedura e bla bla
bla, caso è che mi ubriaca di chiacchiere ed in un balletto mi depila l’inguine
sinistro fino alla metà del mio pube. A questo punto aspetto qualche secondo con
i miei arti inferiori ancora semiaperti, pensando che avrebbe proseguito anche
con la parte destra. Mi guarda e poi dice, la parte destra non importa, e se ne
va. Alquanto sbalordita preferisco prenderla con filosofia, mi viene proprio da
ridere al vedere i risultati: ho un pube decisamente PUNK!
A questo punto bisogna
aspettare il primo pomeriggio per l’intervento. In quelle ore osservo le
persone e mi accorgo che l’attenzione tutta italiana per la bella figura sta un
po’ scomparendo, soprattutto negli uomini. Le donne di una certa età si vedono
ancora linde, con le loro belle vestaglie, ma gli uomini vanno in giro con
certi pigiami tutti deformati che danno veramente un senso di trasandato,
indossano magliette con personaggi di cartoni animati, di tutti colori al posto
delle classiche t shirt bianche Cagi di una volta. Insomma quelle vecchie
abitudini di gran decoro stanno sparendo e mi dispiace, mi viene da pensare
anche a quelle domeniche alla messa quando si vedevano le persone vestite “a
modino”, che per sedersi alzavano il cappotto o la giacca per non sgualcirle, mentre
oggigiorno la gente entra in chiesa con i bermuda, donne e uomini appoggiano i
piedi con le scarpe sopra gli inginocchiatoi senza ritegno. Ricordo che da
bambina la mia nonna quando mi vedeva salire su questi inginocchiatoi mi dava
piccoli colpetti sulle gambe con il suo ventaglio, e io subito scendevo
mortificata, quasi avessi pestato Cristo. Vi sono sincera, a me quell’Italia un
po’ contadina del vestito buono della domenica mi faceva tanta tenerezza e mi
suscitava ammirazione, e mi manca, perché credo fosse un’Italia elegante nella
sua umiltà. Probabilmente quasi nessuno fa più il sacchetto magico e si limita
ad arraffare quello che capita dal cassetto.
A parte queste
osservazioni sul modo di vestire, ho notato che l’ospedale è un mondo a sé, che
cambia i modi di interagire della gente. In generale in Italia, almeno in
Toscana e a Firenze, le persone non sono molto aperte. Uno può vivere per una
vita intera insieme ad altri nello stesso condominio o vicinato senza sapere
niente di nessuno ed alcune persone non danno nemmeno il buon giorno. Ma quando
si entra in un ospedale e si è costretti a convivere allora non solo ci si
spoglia dei vestiti (e il corpo perde il suo significato, bello o brutto,
malato o sano, non ci sono più veli), ma anche dei pensieri. Dopo soli pochi
minuti capita di ritrovarsi ad ascoltare vita e miracoli delle persone che ti
stanno acanto, ti raccontano senza pudore ogni cosa di loro, i parenti si
sommano a queste conversazioni e si crea un mondo che sicuramente, al momento
di uscire dall’ospedale, svanirà. Non incrocerai mai più queste persone. Forse
è questa la ragione di tanta apertura, uno sfogo momentaneo di gioie e dolori
che non implica il dovere di mantenere una relazione futura perché tutto si è
svolto dentro le mura dell’ospedale.
Io condividevo la camera
con una donna assai viziata, appariva più vecchia della sua età, ma aveva appena
due anni in più di me, il marito anche lui sembrava più anziano, solo il figlio
era abbastanza giovanile. Lei si lamentava continuamente di tutto, parlava con un
fastidioso accento pratese, era petulante e non le andava bene niente, una vera
lagna! Il marito era sempre lì a lisciarla e a coccolarla come fosse una
bambina. Telefonava continuamente alla mamma ottantenne. Dopo la sua operazione
a una ciste in un piede, era tutta agitata perché non riusciva a mettere la
pantofola, si disperava perché diceva di non sapere come avrebbe fatto a
camminare senza pantofola. Dopo aver sentito tutte queste lamentele, le
consiglio di usare un calzino grosso antiscivolo, lei rimane sbalordita ma
soddisfatta e chiama subito la mamma per chiederle di recarsi dalla merciaia e comprarle
i calzini antiscivolo. Non volendo rimanere la notte all’ospedale ha firmato
per andare via e così alle nove di sera se ne è andata con i suoi familiari,
senza dimenticare di richiamare la mamma per chiederle di preparare una
minestrina! Io finalmente tiro un sospiro di sollievo.
La mia operazione è
andata molto bene e, nonostante l’equipe del mio chirurgo ortopedico sia stata molto
efficiente e affabile, avevo comunque un po’ d’ansia e loro si sono comportati
con me in maniera eccellente: bravi, coccoloni e pazienti. Al ritorno in
camera, senza più la mia compagna lagnosa e un po’ rintontita dall’antidolorifico
e dai calmanti, ho provato ad addormentarmi ma il volume della t.v. nella sala
d’attesa era troppo forte e la voce di Flavio Insinna e i suoi odiosi pacchi
del giochino di Rai Uno erano insopportabili. Con un po’ di fatica e
trascinandomi flebo e drenaggio sono riuscita a chiudere la porta, spegnere la
luce ed addormentarmi tranquillamente.
La mattina presto verso
le sei mi sono svegliata affamatissima, ero sicura che in questione di pochi
minuti sarebbe arrivata la mia colazione come di solito fanno negli ospedali,
ma mi sbagliavo. Ho dovuto aspettare le otto e quindici minuti per avere un
triste bicchierino di caffelatte e una brioche.
Appena è passato il
dottore a visitarmi con i documenti di dimissione pronti, ho firmato, fatto la
mia valigia, mi sono vestita e sono andata giù alla sala d’attesa ad aspettare
che mio marito venisse a prendermi. Al piccolo bar della clinica prendo un bel
cappuccino e una pasta con la crema. Lì la persona che attendeva i clienti era
un uomo magro, alto, con i capelli lunghi raccolti in una coda, molto gentile e
di poche parole. Mi è piaciuto subito perché ho notato che ogni tanto usciva da
dietro il banco armato di scopa e raccoglitore a spazzare via le briciole cadute
a terra per mantenere pulito il bar. Devo dire che dovunque sono andata in quei
due giorni, ho visto gente lavorare di buona lena, una bella constatazione in
questi tempi di negligenza.
Sono tornata a casa molto
soddisfatta della mia operazione e sorpresa dalle tante storie che sono venuta
a conoscere dai miei compagni d’avventura dell’ospedale. Una decina di persone
che hanno condiviso con me ventiquattro ore nell’ospedale. So che no li rivedrò
mai più ma credo che non li dimenticherò mai. Sulla via del ritorno osservavo
il paesaggio che cambiava e mi sorprendevo con piacere di come in Italia basti
varcare pochi chilometri per scoprire nuovi dialetti, accenti, modi di fare e
di mangiare. E’ meraviglioso!
Versión en español
Bed&breakfast Ca' di Trittoni, camera azzurra
Mis primeras experiencias
de hospitalización en Italia, en los años 80, me hicieron descubrir una curiosa
costumbre de los italianos: la de tener en el fondo del cajón de la ropa
interior una (mágica) bolsa con todo lo necesario para el caso de una
imprevista hospitalización o incluso, en algunas zonas del sur de Italia, para
una eventual fatalidad. La bolsa contenía ropa nueva o perfectamente lavada: un
par de calzones, camiseta, piyama, bata, una toalla, pantuflas y un mantelito
individual con servilleta, de preferencia bordado a mano. Todo esto para que
nadie debiese preocuparse de estos inconvenientes en caso de urgencia pero,
sobre todo, por la obsesión de aparecer siempre y en todos lados luciendo la bella figura[1].
No fue fácil para mí, como extranjera,
adquirir esta costumbre. Varias veces he preparado mi “bolsa mágica”, la he
acomodado en el fondo del cajón en medio del desorden que normalmente reina
entre mi ropa interior pero, puntualmente, después de poco tiempo, agarraba alguna
prenda (los calzones, primero, y me prometía reponerlos lo más rápido posible; no
obstante mi promesa, la bolsa se iba vaciando despacito y todas las prendas se volvían
de uso cotidiano). Íntimamente, esperaba no tener que ir al hospital.
No fue
así. Varias veces tuve que hospitalizarme, por cosas bastante sencillas. Así que,
cada vez, me veía obligada a comprar cosas bonitas para llevarlas al hospital y
no hacer la brutta (fea) figura.
Hace un mes supe la fecha para una cirugía artroscópica
de mi rodilla izquierda en una clínica de la región de
El día anterior, partí junto con mi marido
y nos hospedamos en un bonito y limpio Bed
& breakfast cerca del hospital. Lo que más me gustó del lugar fue haber
encontrado sobre la mesa, junto a una botella de agua y dos vasos, un paquete
de libros de poesía y filosofía, atados con un listón de raso formando un bellísimo
moño azul: esto fue una sorpresa muy agradable.
La cita para internarme era a las 6:30 de
la mañana siguiente para comenzar con análisis y electrocardiograma. Éramos
unas veinte personas: algunas del lugar; otras; de Prato[2]
y yo, de Florencia. Entré a la oficina de un cirujano ortopédico, colega de mi médico,
que quiso el destino fuera cojo de su pierna derecha. Me senté e iniciaron las
preguntas. Me preguntó:
-¿Usted va ser operada de su rodilla derecha?
-¡No! -respondí muy preocupada-. De la rodilla izquierda-. Y confirmé con vehemencia
diciendo: “¡iniciamos muy bien!”.
El doctor, bromeando, marcó mi rodilla izquierda con una gran X negra y
bromeó: “así no hay modo de equivocarse”. Una vez terminados los procedimientos
para internarme y después de una larga espera, me dieron una habitación.
Me pidieron cambiarme. Saqué mi bello camisón beige con florecitas azules y mi bata azul. No había terminado de vestirme
cuanto entró un enfermero. Con su alegre acento romañolo, me dio los buenos
días y me hizo varias preguntas:
-¿Trae esmalte en sus uñas?
-No -respondo.
-¿Trae objetos de metal?
-No.
-¿Ropa interior que no sea de algodón?
-Sí.
-Entonces, quíteselos.
Fuera los chones y el brasier (en estos tiempos, es difícil que la ropa no
tenga un mínimo de material sintético) Por último, me pregunta:
-¿Se ha depilado la ingle?
-No, no lo sabía, nadie me lo había dicho.
-Entonces, señora, lo siento mucho pero tengo que proveer.
El enfermero romañolo siempre hablaba con ese sonsonete que me recuerda al
piloto de motos, Valentino Rossi. Regresó con un paño y un rastrillo
desechable, muy mortificado por el trabajo que estaba por hacer. Me pidió que
me acomodara arriba del paño, me dijo que comprendía que a lo mejor yo hubiera
preferido depilarme con cera pero él está obligado a rasurarme en seco, que llamará
la atención a mi médico por no haberme avisado de este procedimiento y
blablablá. El caso es que me atonta de tanto hablar y, en un pestañear, me
depila la ingle y la mitad de mi pubis. En este momento, todavía aguardé unos segundos
con las piernas entreabiertas, pensando que proseguiría con la parte derecha,
pero me observó y dijo: “la parte derecha no importa”. Se fue. Algo perpleja,
preferí tomar la cosa con filosofía y me reí al ver los resultados: ¡tenía un
pubis extremamente punk!
No me quedó más que esperar la tarde para
la cirugía. Mientras, observé las personas a mi alrededor y me di cuenta de que
esa atención muy italiana por “la bella figura” está desapareciendo, sobre todo
en los hombres. Las mujeres todavía se ven lindas, con sus bellas batas y
camisones, mientras los hombres andan con pijamas deformadas que les dan un no
sé qué de desaliño. También usan camisetas con personajes de caricaturas,
llenas de color, en lugar de las clásicas camisetas blancas de algodón marca
Cagi[3],
como se usaban tiempos atrás.
Esas viejas costumbres de gran decencia están desapareciendo y esto me
duele, me hace pensar en los domingos en la iglesia, cuando se veía a personas muy
bien vestidas que, al sentarse, se levantaban los abrigos o sacos para no
arrugarlos. Hoy, en cambio, las personas entran a la iglesia con bermudas, y
mujeres y hombres apoyan los pies en los reclinatorios. Cuando era niña, si mi
abuelita me veía subirme en estos reclinatorios, me daba golpecitos en las piernas
con su abanico y yo me bajaba mortificada, como si hubiera pisado a Jesús.
Esa Italia un poco campesina, la del buen vestido del domingo, me daba ternura
y admiración; la extraño, pues creo que era una Italia elegante en su humildad.
Probablemente, ahora casi nadie hace su bolsa mágica y todos se limitan a
agarrar lo que encuentran en el cajón.
Aparte de estas observaciones acerca de la
manera de vestir, he notado que el hospital es un mundo aparte, que cambia la
manera en que se relaciona la gente. En Italia, en general (al menos en
Yo compartía la habitación con una mujer
muy mimada que parecía más vieja. Apenas era dos años mayor que yo. El marido también
se veía avejentado. Sólo el hijo era bastante juvenil. Ella se lamentaba
continuamente de todo, hablaba con un fastidioso sonsonete pratense[4],
era petulante y nada le agradaba. ¡Una lata! El marido la acariciaba todo el
tiempo y la consentía como si fuera una niña. Llamaba continuamente por
teléfono a la mamá, de ochenta años. Después de su operación por un quiste en el
pie, estaba muy agitada porque no lograba meter el pie en la pantufla: se desesperaba
porque no sabía como le haría para caminar sin pantuflas. Después de un buen
rato de escucharla, le aconsejé ponerse un calcetín grueso, antideslizante. Ella
quedó sorprendida con mi idea y llamó inmediatamente a su mamá para que fuera a
la mercería a comprale un par de calcetines. No quiso pasar la noche en el
hospital y firmó su salida. Así, a las nueve de la noche, se fue con sus
familiares, sin olvidar la llamada a la mamá para pedirle una sopita cuando
llegara. Yo lancé un suspiro de alivio.
Mi operación salió bien y, no obstante que
todo el equipo de mi cirujano fue muy eficiente y afable, yo tenía algo de
ansia y ellos se comportaron excelentemente conmigo: fueron consentidores y
pacientes. De regreso en mi habitación, sin mi compañera latosa y un poquito
atontada por el calmante, intenté dormir, pero el volumen de la televisión en
la salita de espera era demasiado fuerte y la voz de Flavio Insinna[5]
y sus odiosos juegos de Rai Uno[6]
eran insoportables. Con un poco de fatiga y arrastrando el suero y el drenaje,
logré cerrar la puerta, apagar la luz y dormir tranquilamente.
Al día siguiente me desperté muy temprano
a las seis, hambrienta. Estaba segura de que en cosa de minutos me llevarían el
desayuno, como se acostumbra en los hospitales, pero me equivocaba. Tuve que
esperar hasta las ocho y quince para que me dieran un triste vasito de café con
leche y tres galletas.
Apenas pasó el doctor a visitarme con los
documentos de salida listos, firmé, preparé mi bolsón, me vestí y bajé a una
sala para esperar a que viniera mi marido a recogerme. En la pequeña cafetería
del hospital me tomé un rico capuchino y un croissant
relleno de crema. La persona que atendía a los clientes era un hombre alto,
delgado, con pelo largo recogido en una cola, muy amable y de pocas palabras.
Me gustó inmediatamente porque noté que, de vez en cuando, salía de la barra
armado con escoba y recogedor para barrer las moronas caídas en el suelo y, así,
mantener limpia la cafetería. Dondequiera que fui en esos dos días, vi trabajar
a mucha gente con empeño: una bella constatación en estos tiempos de crisis.
Regresé a casa muy satisfecha de mi
operación y sorprendida por todas las historias de mis compañeros de aventura
en el hospital. Unas cuantas personas compartieron conmigo veinticuatro horas
en el hospital: sé que nunca las volveré a ver, pero creo que las recordaré
siempre.
Regresando a casa, observé el cambiante paisaje
y me asombraba percatarme con placer cómo, en Italia, basta atravesar pocos
kilómetros para descubrir nuevos dialectos, acentos, maneras de hacer y de
comer. ¡Es maravilloso!
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