domenica 31 gennaio 2016

Racconti ospedalieri III - Historias de hospitales III - L’OSPEDALE (2015) - EL HOSPITAL (2015)

Ospedale Villa Chiara, Casalecchio di Reno, Bologna

Le mie prime esperienze di ricovero all’ospedale in Italia, negli anni ’80, mi fecero scoprire una curiosa abitudine degli italiani, quella di tenere in fondo al cassetto del comò della biancheria intima, un (magico) sacchetto con tutto il necessario per un imprevisto ricovero ospedaliero o addirittura, in alcune zone del sud d’Italia,  per una eventuale fatalità. Il sacchetto conteneva tutti indumenti nuovi o perfettamente puliti: un paio di mutande, canottiera, pigiama, vestaglia, un asciugamano, ciabattine, e qualche tovagliolo, di preferenza ricamato a mano. Tutto ciò affinché nessuno si dovesse preoccupare di queste inconvenienze in caso di un’urgenza, ma soprattutto perché ossessionati di fare sempre e dovunque “la bella figura”.
Non è stato facile per me straniera acquisire questa abitudine. Spesso ho preparato volenterosa il mio “sacchetto magico”, l’ho sistemato in fondo al mio cassetto in mezzo alla confusione che di solito regna fra la mia biancheria intima. Ma puntualmente, dopo un po’, incominciavo a prendere da lì qualche capo, in genere le mutande che mi ripromettevo di sostituire al più presto possibile; ma, nonostante la promessa, piano piano svuotavo il sacchetto e tutti gli indumenti presto diventavano di uso quotidiano. Dentro di me speravo sempre di non dovere andare in ospedale.
E invece no, diverse volte dovetti ricoverarmi, grazie a Dio per cose abbastanza leggere. Così ogni volta mi vedevo nella necessità di comprare cose carine da portarmi dietro e non fare “la brutta figura”.
Qualche mese fa ho saputo la data per un mio intervento al ginocchio sinistro in una clinica in Emilia Romagna, perciò ho avuto tutto il tempo necessario per preparare il borsone con l’abbigliamento giusto.
La sera prima dell’evento sono partita insieme a mio marito e abbiamo alloggiato in un bel bed&breakfast, molto carino e pulito, nelle vicinanze dell’ospedale. La cosa che più mi è piaciuta del posto è stato aver trovato sul tavolo della stanza insieme ad una bottiglia d’acqua e due bicchieri una specie di pacchetto di libri di poesia e filosofia, legati da un nastro di raso formando un bel fiocco azzurro; questa è stata una piacevolissima sorpresa! 
L’appuntamento la mattina dopo era alle 6:30 a.m. per fare l’accettazione, analisi ed elettrocardiogramma. Eravamo una ventina di persone, alcune del posto, altre di Prato e io da Firenze. Come prima cosa sono entrata nell’ufficio di un chirurgo ortopedico collega del mio dottore, che vuole il caso fosse molto claudicante della sua gamba destra, mi sono seduta e sono iniziate le domande. Mi ha chiesto: Lei deve essere sottoposta ad un intervento di artroscopia al ginocchio destro? No! Ho risposto io assai preoccupata, ginocchio sinistro e ho ribadito con forza dicendo: iniziamo proprio bene! Il dottore, facendo finta di scherzare, mi rassicura segnando il mio ginocchio sinistro con una grande x nera, così non c’è maniera di sbagliare, dice per tranquillizzarmi. Una volta finite le procedure per il ricovero, dopo una lunga attesa mi viene data la stanza. Mi dicono di cambiarmi, tiro fuori la mia bella camicia da notte beige con fiorellini blu e la vestaglia blu, non ho ancora finito di sistemarmi che entra un infermiere. Con il suo allegro accento romagnolo mi dà il buon giorno e mi chiede diverse cose: ha lo smalto alle unghie? No, rispondo io. Ha oggetti in metallo? No. Indumenti intimi non di cotone? Sì. Allora li tolga, e via il reggiseno e le mutandine (in questi tempi quasi tutti i vestiti hanno un minimo di elastane!), per ultimo chiede: si è depilata l’inguine? No, gli dico, non lo sapevo, nessuno me lo ha detto! Allora signora, mi dispiace ma devo prendere provvedimenti, sempre con quella parlantina romagnola che mi ricorda Valentino Rossi. L’infermiere ritorna con un telo e una lametta usa e getta, molto dispiaciuto per quello che si attinge a fare, mi chiede di sdraiarmi sopra il telo, mi dice che lui capisce che magari io avrei preferito farmi la ceretta invece lui è costretto a usare la lametta così a secco, dice anche che andrà a brontolare il mio dottore per non avermi avvisato di questa procedura e bla bla bla, caso è che mi ubriaca di chiacchiere ed in un balletto mi depila l’inguine sinistro fino alla metà del mio pube. A questo punto aspetto qualche secondo con i miei arti inferiori ancora semiaperti, pensando che avrebbe proseguito anche con la parte destra. Mi guarda e poi dice, la parte destra non importa, e se ne va. Alquanto sbalordita preferisco prenderla con filosofia, mi viene proprio da ridere al vedere i risultati: ho un pube decisamente PUNK!
A questo punto bisogna aspettare il primo pomeriggio per l’intervento. In quelle ore osservo le persone e mi accorgo che l’attenzione tutta italiana per la bella figura sta un po’ scomparendo, soprattutto negli uomini. Le donne di una certa età si vedono ancora linde, con le loro belle vestaglie, ma gli uomini vanno in giro con certi pigiami tutti deformati che danno veramente un senso di trasandato, indossano magliette con personaggi di cartoni animati, di tutti colori al posto delle classiche t shirt bianche Cagi di una volta. Insomma quelle vecchie abitudini di gran decoro stanno sparendo e mi dispiace, mi viene da pensare anche a quelle domeniche alla messa quando si vedevano le persone vestite “a modino”, che per sedersi alzavano il cappotto o la giacca per non sgualcirle, mentre oggigiorno la gente entra in chiesa con i bermuda, donne e uomini appoggiano i piedi con le scarpe sopra gli inginocchiatoi senza ritegno. Ricordo che da bambina la mia nonna quando mi vedeva salire su questi inginocchiatoi mi dava piccoli colpetti sulle gambe con il suo ventaglio, e io subito scendevo mortificata, quasi avessi pestato Cristo. Vi sono sincera, a me quell’Italia un po’ contadina del vestito buono della domenica mi faceva tanta tenerezza e mi suscitava ammirazione, e mi manca, perché credo fosse un’Italia elegante nella sua umiltà. Probabilmente quasi nessuno fa più il sacchetto magico e si limita ad arraffare quello che capita dal cassetto.
A parte queste osservazioni sul modo di vestire, ho notato che l’ospedale è un mondo a sé, che cambia i modi di interagire della gente. In generale in Italia, almeno in Toscana e a Firenze, le persone non sono molto aperte. Uno può vivere per una vita intera insieme ad altri nello stesso condominio o vicinato senza sapere niente di nessuno ed alcune persone non danno nemmeno il buon giorno. Ma quando si entra in un ospedale e si è costretti a convivere allora non solo ci si spoglia dei vestiti (e il corpo perde il suo significato, bello o brutto, malato o sano, non ci sono più veli), ma anche dei pensieri. Dopo soli pochi minuti capita di ritrovarsi ad ascoltare vita e miracoli delle persone che ti stanno acanto, ti raccontano senza pudore ogni cosa di loro, i parenti si sommano a queste conversazioni e si crea un mondo che sicuramente, al momento di uscire dall’ospedale, svanirà. Non incrocerai mai più queste persone. Forse è questa la ragione di tanta apertura, uno sfogo momentaneo di gioie e dolori che non implica il dovere di mantenere una relazione futura perché tutto si è svolto dentro le mura dell’ospedale.
Io condividevo la camera con una donna assai viziata, appariva più vecchia della sua età, ma aveva appena due anni in più di me, il marito anche lui sembrava più anziano, solo il figlio era abbastanza giovanile. Lei si lamentava continuamente di tutto, parlava con un fastidioso accento pratese, era petulante e non le andava bene niente, una vera lagna! Il marito era sempre lì a lisciarla e a coccolarla come fosse una bambina. Telefonava continuamente alla mamma ottantenne. Dopo la sua operazione a una ciste in un piede, era tutta agitata perché non riusciva a mettere la pantofola, si disperava perché diceva di non sapere come avrebbe fatto a camminare senza pantofola. Dopo aver sentito tutte queste lamentele, le consiglio di usare un calzino grosso antiscivolo, lei rimane sbalordita ma soddisfatta e chiama subito la mamma per chiederle di recarsi dalla merciaia e comprarle i calzini antiscivolo. Non volendo rimanere la notte all’ospedale ha firmato per andare via e così alle nove di sera se ne è andata con i suoi familiari, senza dimenticare di richiamare la mamma per chiederle di preparare una minestrina! Io finalmente tiro un sospiro di sollievo.
La mia operazione è andata molto bene e, nonostante l’equipe del mio chirurgo ortopedico sia stata molto efficiente e affabile, avevo comunque un po’ d’ansia e loro si sono comportati con me in maniera eccellente: bravi, coccoloni e pazienti. Al ritorno in camera, senza più la mia compagna lagnosa e un po’ rintontita dall’antidolorifico e dai calmanti, ho provato ad addormentarmi ma il volume della t.v. nella sala d’attesa era troppo forte e la voce di Flavio Insinna e i suoi odiosi pacchi del giochino di Rai Uno erano insopportabili. Con un po’ di fatica e trascinandomi flebo e drenaggio sono riuscita a chiudere la porta, spegnere la luce ed addormentarmi tranquillamente.
La mattina presto verso le sei mi sono svegliata affamatissima, ero sicura che in questione di pochi minuti sarebbe arrivata la mia colazione come di solito fanno negli ospedali, ma mi sbagliavo. Ho dovuto aspettare le otto e quindici minuti per avere un triste bicchierino di caffelatte e una brioche.
Appena è passato il dottore a visitarmi con i documenti di dimissione pronti, ho firmato, fatto la mia valigia, mi sono vestita e sono andata giù alla sala d’attesa ad aspettare che mio marito venisse a prendermi. Al piccolo bar della clinica prendo un bel cappuccino e una pasta con la crema. Lì la persona che attendeva i clienti era un uomo magro, alto, con i capelli lunghi raccolti in una coda, molto gentile e di poche parole. Mi è piaciuto subito perché ho notato che ogni tanto usciva da dietro il banco armato di scopa e raccoglitore a spazzare via le briciole cadute a terra per mantenere pulito il bar. Devo dire che dovunque sono andata in quei due giorni, ho visto gente lavorare di buona lena, una bella constatazione in questi tempi di negligenza.
Sono tornata a casa molto soddisfatta della mia operazione e sorpresa dalle tante storie che sono venuta a conoscere dai miei compagni d’avventura dell’ospedale. Una decina di persone che hanno condiviso con me ventiquattro ore nell’ospedale. So che no li rivedrò mai più ma credo che non li dimenticherò mai. Sulla via del ritorno osservavo il paesaggio che cambiava e mi sorprendevo con piacere di come in Italia basti varcare pochi chilometri per scoprire nuovi dialetti, accenti, modi di fare e di mangiare. E’ meraviglioso!


Versión en español

Bed&breakfast Ca' di Trittoni, camera azzurra

Mis primeras experiencias de hospitalización en Italia, en los años 80, me hicieron descubrir una curiosa costumbre de los italianos: la de tener en el fondo del cajón de la ropa interior una (mágica) bolsa con todo lo necesario para el caso de una imprevista hospitalización o incluso, en algunas zonas del sur de Italia, para una eventual fatalidad. La bolsa contenía ropa nueva o perfectamente lavada: un par de calzones, camiseta, piyama, bata, una toalla, pantuflas y un mantelito individual con servilleta, de preferencia bordado a mano. Todo esto para que nadie debiese preocuparse de estos inconvenientes en caso de urgencia pero, sobre todo, por la obsesión de aparecer siempre y en todos lados luciendo la bella figura[1].
    No fue fácil para mí, como extranjera, adquirir esta costumbre. Varias veces he preparado mi “bolsa mágica”, la he acomodado en el fondo del cajón en medio del desorden que normalmente reina entre mi ropa interior pero, puntualmente, después de poco tiempo, agarraba alguna prenda (los calzones, primero, y me prometía reponerlos lo más rápido posible; no obstante mi promesa, la bolsa se iba vaciando despacito y todas las prendas se volvían de uso cotidiano). Íntimamente, esperaba no tener que ir al hospital.
    No fue así. Varias veces tuve que hospitalizarme, por cosas bastante sencillas. Así que, cada vez, me veía obligada a comprar cosas bonitas para llevarlas al hospital y no hacer la brutta (fea) figura.
    Hace un mes supe la fecha para una cirugía artroscópica de mi rodilla izquierda en una clínica de la región de la Emilia Romaña (vecina de la Toscana), por lo que tuve tiempo de preparar mi bolsón con todo lo necesario.
    El día anterior, partí junto con mi marido y nos hospedamos en un bonito y limpio Bed & breakfast cerca del hospital. Lo que más me gustó del lugar fue haber encontrado sobre la mesa, junto a una botella de agua y dos vasos, un paquete de libros de poesía y filosofía, atados con un listón de raso formando un bellísimo moño azul: esto fue una sorpresa muy agradable.
    La cita para internarme era a las 6:30 de la mañana siguiente para comenzar con análisis y electrocardiograma. Éramos unas veinte personas: algunas del lugar; otras; de Prato[2] y yo, de Florencia. Entré a la oficina de un cirujano ortopédico, colega de mi médico, que quiso el destino fuera cojo de su pierna derecha. Me senté e iniciaron las preguntas. Me preguntó:
-¿Usted va ser operada de su rodilla derecha?
-¡No! -respondí muy preocupada-. De la rodilla izquierda-. Y confirmé con vehemencia diciendo: “¡iniciamos muy bien!”.
El doctor, bromeando, marcó mi rodilla izquierda con una gran X negra y bromeó: “así no hay modo de equivocarse”. Una vez terminados los procedimientos para internarme y después de una larga espera, me dieron una habitación.
Me pidieron cambiarme. Saqué mi bello camisón beige con florecitas azules y mi bata azul. No había terminado de vestirme cuanto entró un enfermero. Con su alegre acento romañolo, me dio los buenos días y me hizo varias preguntas:
-¿Trae esmalte en sus uñas?
-No -respondo.
-¿Trae objetos de metal?
-No.
-¿Ropa interior que no sea de algodón?
-Sí.
-Entonces, quíteselos.
Fuera los chones y el brasier (en estos tiempos, es difícil que la ropa no tenga un mínimo de material sintético) Por último, me pregunta:
-¿Se ha depilado la ingle?
-No, no lo sabía, nadie me lo había dicho.
-Entonces, señora, lo siento mucho pero tengo que proveer.
El enfermero romañolo siempre hablaba con ese sonsonete que me recuerda al piloto de motos, Valentino Rossi. Regresó con un paño y un rastrillo desechable, muy mortificado por el trabajo que estaba por hacer. Me pidió que me acomodara arriba del paño, me dijo que comprendía que a lo mejor yo hubiera preferido depilarme con cera pero él está obligado a rasurarme en seco, que llamará la atención a mi médico por no haberme avisado de este procedimiento y blablablá. El caso es que me atonta de tanto hablar y, en un pestañear, me depila la ingle y la mitad de mi pubis. En este momento, todavía aguardé unos segundos con las piernas entreabiertas, pensando que proseguiría con la parte derecha, pero me observó y dijo: “la parte derecha no importa”. Se fue. Algo perpleja, preferí tomar la cosa con filosofía y me reí al ver los resultados: ¡tenía un pubis extremamente punk!
     No me quedó más que esperar la tarde para la cirugía. Mientras, observé las personas a mi alrededor y me di cuenta de que esa atención muy italiana por “la bella figura” está desapareciendo, sobre todo en los hombres. Las mujeres todavía se ven lindas, con sus bellas batas y camisones, mientras los hombres andan con pijamas deformadas que les dan un no sé qué de desaliño. También usan camisetas con personajes de caricaturas, llenas de color, en lugar de las clásicas camisetas blancas de algodón marca Cagi[3], como se usaban tiempos atrás.
Esas viejas costumbres de gran decencia están desapareciendo y esto me duele, me hace pensar en los domingos en la iglesia, cuando se veía a personas muy bien vestidas que, al sentarse, se levantaban los abrigos o sacos para no arrugarlos. Hoy, en cambio, las personas entran a la iglesia con bermudas, y mujeres y hombres apoyan los pies en los reclinatorios. Cuando era niña, si mi abuelita me veía subirme en estos reclinatorios, me daba golpecitos en las piernas con su abanico y yo me bajaba mortificada, como si hubiera pisado a Jesús.
Esa Italia un poco campesina, la del buen vestido del domingo, me daba ternura y admiración; la extraño, pues creo que era una Italia elegante en su humildad. Probablemente, ahora casi nadie hace su bolsa mágica y todos se limitan a agarrar lo que encuentran en el cajón.
     Aparte de estas observaciones acerca de la manera de vestir, he notado que el hospital es un mundo aparte, que cambia la manera en que se relaciona la gente. En Italia, en general (al menos en la Toscana y en Florencia), las personas no son muy abiertas. Uno puede vivir una vida entera cerca de otros, en el mismo condominio o colonia, sin saber nada de nadie, y la mayoría de las personas no da ni siquiera los buenos días. Cuando uno entra a un hospital y estás obligado a convivir con otros, no sólo hay una desnudez de la ropa (el cuerpo pierde significado, bello o feo, sano o enfermo, pues no existen velos), sino de los pensamientos. Después de pocos minutos, se escuchan la vida y milagros de las personas que están alrededor, pues cuentan sin pudor cada cosa de ellos; los parientes se suman a las conversaciones y se crea un mundo que seguramente, en el momento de dejar el hospital, se desvanecerá: jamás volverás a cruzarte con estas personas. Quizás, ésta sea la razón de tanta apertura: un desahogo momentáneo de alegrías y penas que no implica el deber de mantener una relación futura, porque todo se ha desarrollado dentro de las paredes del hospital.
     Yo compartía la habitación con una mujer muy mimada que parecía más vieja. Apenas era dos años mayor que yo. El marido también se veía avejentado. Sólo el hijo era bastante juvenil. Ella se lamentaba continuamente de todo, hablaba con un fastidioso sonsonete pratense[4], era petulante y nada le agradaba. ¡Una lata! El marido la acariciaba todo el tiempo y la consentía como si fuera una niña. Llamaba continuamente por teléfono a la mamá, de ochenta años. Después de su operación por un quiste en el pie, estaba muy agitada porque no lograba meter el pie en la pantufla: se desesperaba porque no sabía como le haría para caminar sin pantuflas. Después de un buen rato de escucharla, le aconsejé ponerse un calcetín grueso, antideslizante. Ella quedó sorprendida con mi idea y llamó inmediatamente a su mamá para que fuera a la mercería a comprale un par de calcetines. No quiso pasar la noche en el hospital y firmó su salida. Así, a las nueve de la noche, se fue con sus familiares, sin olvidar la llamada a la mamá para pedirle una sopita cuando llegara. Yo lancé un suspiro de alivio.
     Mi operación salió bien y, no obstante que todo el equipo de mi cirujano fue muy eficiente y afable, yo tenía algo de ansia y ellos se comportaron excelentemente conmigo: fueron consentidores y pacientes. De regreso en mi habitación, sin mi compañera latosa y un poquito atontada por el calmante, intenté dormir, pero el volumen de la televisión en la salita de espera era demasiado fuerte y la voz de Flavio Insinna[5] y sus odiosos juegos de Rai Uno[6] eran insoportables. Con un poco de fatiga y arrastrando el suero y el drenaje, logré cerrar la puerta, apagar la luz y dormir tranquilamente.
     Al día siguiente me desperté muy temprano a las seis, hambrienta. Estaba segura de que en cosa de minutos me llevarían el desayuno, como se acostumbra en los hospitales, pero me equivocaba. Tuve que esperar hasta las ocho y quince para que me dieran un triste vasito de café con leche y tres galletas.
      Apenas pasó el doctor a visitarme con los documentos de salida listos, firmé, preparé mi bolsón, me vestí y bajé a una sala para esperar a que viniera mi marido a recogerme. En la pequeña cafetería del hospital me tomé un rico capuchino y un croissant relleno de crema. La persona que atendía a los clientes era un hombre alto, delgado, con pelo largo recogido en una cola, muy amable y de pocas palabras. Me gustó inmediatamente porque noté que, de vez en cuando, salía de la barra armado con escoba y recogedor para barrer las moronas caídas en el suelo y, así, mantener limpia la cafetería. Dondequiera que fui en esos dos días, vi trabajar a mucha gente con empeño: una bella constatación en estos tiempos de crisis.
     Regresé a casa muy satisfecha de mi operación y sorprendida por todas las historias de mis compañeros de aventura en el hospital. Unas cuantas personas compartieron conmigo veinticuatro horas en el hospital: sé que nunca las volveré a ver, pero creo que las recordaré siempre.
     Regresando a casa, observé el cambiante paisaje y me asombraba percatarme con placer cómo, en Italia, basta atravesar pocos kilómetros para descubrir nuevos dialectos, acentos, maneras de hacer y de comer. ¡Es maravilloso!




[1] La bella figura: presentarse siempre de la mejor manera.
[2] Prato: ciudad de la Toscana cerca de Florencia.
[3] Cagi: marca de ropa interior para varone
[4] Pratense: persona que proviene de Prato
[5] Flavio Insinna: popular conductor televisivo.
[6] Rai Uno: canal de la televisión italiana.


domenica 24 gennaio 2016

Racconti ospedalieri II - Historias de hospitales II - Mis vacaciones de verano en el Hospital de Torregalli (Florencia 2008) - Il mio soggiorno estivo all'Ospedale di Torregalli (Firenze 2008)

Ospedale San Giovanni di Dio, Torregalli


Hacía ya un poco de tiempo que cuando andaba en bicicleta por una subida me fatigaba mucho y mi corazón palpitaba más fuerte. Conociendo mi cuerpo, me doy cuenta que es una pequeña señal de que algo no está funcionando muy bien. No obstante esto, salí una mañana temprano en bicicleta, ya que éste es el mejor medio de transporte en esta ciudad y el único modo de no pagar los caros estacionamientos, para hacerme los análisis de sangre en los consultorios públicos. Sabía que pasaría un buen rato entre tantas otras personas que esperan su turno, algunos pacientemente en silencio, otros creando confusión y grandes polémicas por el “mal servicio” de las instituciones públicas.
De regreso a casa, después de la comida del medio día, suena el teléfono y preguntan por mí. Llaman del laboratorio del Hospital de Torregalli para sugerirme ver a mi doctor o ir a Urgencias, pues el resultado de los análisis no es muy bueno. O sea, mi hemocromo anda muy mal y se señala una fuerte anemia; no se explican cómo todavía no he caído desmayada. Siempre he sufrido de anemia pero nunca a estos niveles, así que decido ir al día siguiente a Urgencias. Antes que nada quiero dejar arregladas varias cosas en la casa (nosotras las mujeres tenemos la costumbre de dejar hecha al menos una salsa de tomate para la pasta en el refrigerador para la familia temiendo siempre que mueran de hambre).
Al día siguiente me presento temprano con una pequeña bolsa con un cambio de ropa y las cosas de higiene personal necesarias, sospechando que me pudieran internar para hacer verificaciones de mi situación. Entro en la sala y encuentro tres mujeres ancianas con graves problemas de salud, una joven embarazada con fuertes dolores en el abdomen y otra señora anciana, muy elegante, pero enferma de Alzheimer. El médico es un hombre pequeñito, entrecano, delgado; usa tenis rojos de tela, salta como un gnomo de una camilla a otra, escribe en la computadora las diagnosis, habla conmigo, da órdenes a la enfermera; es muy simpático y profesional.
Decide mi hospitalización para una eventual transfusión de sangre, pues el resultado del análisis de esta mañana es peor que el de la de ayer, así vengo transferida al cuarto piso, cuarto 32, con vista a las colinas florentinas con los árboles de olivos plateados y las viñas de uva doradas; ese será mi cuarto en esta vacación obligada. Hay seis camas, todas con huéspedes con alguna edad importante: ¡70, 80, 90 años!
Una vez instalada comienzo a conocer a mis compañeras de cuarto y, mientras, empiezan mis estudios médicos para conocer la causa de mi fuerte anemia.
Apenas entra uno en la recámara y a la derecha está Irma, un mujerón de 95 años; parece un gran fantasma blanco, como blanca también es su bata de noche bordada perfectamente con sus manos durante alguna edad más joven. Es ella la protagonista de nuestro cuarto; es muy fuerte y dice que su secreto para estar tan bien es ”tanta lectura y hacer crucigramas”; el equipo médico la llama cariñosamente La Marescialla (La Mariscal); su acento al hablar es típicamente “florentino toscano”, muy lleno de color y esto le dará más adelante algún problemita.
Hay también una mujer pequeñita que se llama Cleila, pero yo la llamo dentro de mí “Ciruela Pasa” porque está siempre con una aire de enojada y con su frente ceñuda y no va de acuerdo con Irma. Es pequeña pero tiene sus muñecas y tobillos muy gruesos, lo que hacen de ella una falsa flaca; tiene 82 años. La tercera cama está ocupada por una mujer de unos 76 años, rubia con bellísimos ojos azules; trae colgadas muchas joyas y se enoja mucho cuando tiene que quitarse todo su tesoro para ir a hacerse análisis, radiografías, etc. Está muy bronceada pues estaba en un lugar de mar cuando tuvo que interrumpir sus verdaderas vacaciones para hospitalizarse.
A mi lado la primera noche estaba una bella viejita con demencia senil. Pasaba todo el tiempo cosiendo, bordando imaginariamente con sus manos la sábana de su cama; había sido esa su profesión en su vida laboral y llamaba siempre como una dulce niña “mamá“ a su hija, quien la visitaba todos los días. Yéndose ella llegó una mujer bonachona con una erupción en las piernas debido a tantas medicinas que tomaba para la cura de la infinidad de enfermedades que sufre (diabetes, hipertensión, etc.); en cuatro días no comió nada y jamás se lamentó, como si tuviera miedo de las enfermeras. Y por último, a mi derecha está una mujer siciliana de 84 años, deprimida, enojada, triste. Sus fuertes cabellos están bien atados a su cabeza; solo han cambiado del color negro pasando al blanco canoso. Tiene sus piernas y brazos fuertes; se ve que ha trabajado olivastros en el campo. Tiene una familia numerosa que la viene a visitar todos los días, creando una gran confusión en el cuarto: se sientan en la cama de la enferma sin atención y apoyan bolsas y bolsones por todos lados; típicamente una familia del sur.
Las primeras dos noches fueron una pesadilla. No logré conciliar el sueño pues todas necesitaban algo o alguien; entre pedidos de bacinicas y cambios de pañales era un ir y venir de enfermeras. En cierto punto explotó un pleito entre Irma y una enfermera. Lo que desencadenó el infierno fue el modo que Irma usó para pedir una bacinica, gritando: “¡quiero  mear!”, a lo que la enfermera contestó en mal modo: “usted es una mala educada; ¡no se dice mear!”. Irma contestó en modo típicamente toscano: “a mí no me enseñas tú el florentino”.
Yo que siempre he defendido la categoría de las enfermeras, esta vez tengo que ponerme de la parte de Irma pues esa noche no eran profesionales: estaban siempre enojadas y hubo problemas más o menos con todas, y todavía temprano en la mañana, antes de la entrada del otro turno por ejemplo, a mí no me suministraron el suero con mi hierro cotidiano.
La tercera noche pasó algo muy extraño: Después de las 20:30 estábamos todas tranquilas, cada quien en su cama. Yo leía “La llave a estrella “ de Primo Levi y escuchaba un poco la conversación entre ellas. En cierto momento cierro mi libro y la noche se transforma en una de esas noches de cuando era joven, en las que junto a las amigas y con una copa de vino en las manos platicábamos de nuestras historias de amor, desilusiones y proyectos futuros.
De Irma sabíamos todo gracias a su exuberancia, pero lentamente las otras, una a la vez, empezaron a contar sus vidas: la rubia enjoyada comenzó a hablar de su difunto marido y de sus hijas; ella está esperando el resultado de una biopsia de un linfonodo, pero no está preocupada por sí misma sino por su hija de 40 años y por el yerno que vive con ella. “¿Saben?, yo les hago todo a ellos. ¡Quién sabe cómo se sentirán perdidos sin mí en estos días! A mi hija le gustan los ejotes cocidos, mientras a mi yerno en salsa de tomate, y yo los contento a los dos... Pobrecitos, ahora ¡cómo le harán!”.
Ciruela Pasa, descubro, tiene 15 días en el hospital y me sorprende, porque así como va platicando de su vida, su cara se relaja y se hace más dulce. Cuando habla del marido, también muerto, se conmueve y deja resbalar lágrimas silenciosas por su rostro. Pero también ella está preocupada por la hija, que es una comerciante y tiene horarios muy difíciles. En consecuencia ha sido siempre ella quien organiza las cosas en la casa: cocinar, lavar, planchar y cuidar el nieto, sobre todo durante las largas vacaciones del verano. Y se pregunta con ansia: “¿Cómo estarán haciéndole con el nieto de 10 años? ¿Lo tendrán que despertar temprano y llevárselo con ellos al negocio?”.
Es realmente sorprendente cómo estas viejas señoras italianas, a quienes les ha tocado la guerra y tantas miserias, están preocupadas por los hijos, todos adultos, ¡y para nada de sus problemas de salud!.
De pronto se despierta la siciliana y comienza a platicar en una manera muy funesta e intensa una serie de tragedias, entre enfermedades y muertes trágicas en su familia, que ni una telenovela podría contener. Entonces entiendo por qué tiene el dolor imprimido en su cara. Pero la cosa más asombrosa es cuando, de un modo confidencial, me dice siempre muy seria que el otro día cuando le hacían la colonoscopia, había hecho reír al doctor, “porque ¿sabes?, yo le dije: oiga bien doctor, yo a mi marido nunca le di permiso de hacerlo por atrás, siempre de frente, siempre de frente y ahora de vieja me toman por el culo... ¡pero de manos de usted!”. La verdad me quedé perpleja; en vista de que su expresión seria mientras lo decía no cambiaba, no sabía si reírme, solo logré dibujar una sonrisa en mis labios.
Cuando llegó mi turno de confidencias me sentí cohibida, ¿qué era mi anemia en comparación a todos sus males? No tengo todavía 50 años y es mi primer achaque, y dentro de mí esperaba seguir con una buena salud, pero al mismo tiempo me preguntaba si quizás también yo en un futuro tendré toda esta familiaridad con bacinicas, pañales, clister, pérdida del pudor, ¡gulp!.
Esa noche era especial como especial nuestra enfermera de turno, Katia: pequeña, morena, gordita y sonriente. Nos apapachó a cada una de nosotras, sobretodo a Irma, que es la que fastidia más en la noche. Se platicaron chistes y nos reímos todas; nos dio nuestras medicinas y a las 22:30 apagó las luces. Como una mamá amorosa, nos dio las buenas noches. No me creerán, pero esa noche dormimos serenas y en paz hasta las cuatro de la mañana cuando empezaron las llamadas de las bacinicas.
En pocos días conocí un mundo completamente diferente de aquel externo a un hospital: convivencias forzadas con otras personas hasta ahora desconocidas, cambios de horarios, el despertar, el desayuno, las comidas, la vida de los médicos, de las enfermeras, de las mujeres de la limpieza; todos dependen unos de otros para hacer funcionar en el mejor de los modos la vida del enfermo.
Como vacaciones no fue lo máximo, pero como conocimiento humano, grandioso.

Versione in italiano
Castello di Torregalli
Là dove c’erano salite, qualche scalino in più, il mio cuore batteva più forte… conoscendo il mio corpo capisco che è un piccolo segnale di qualcosa che non va. Nonostante questo, parto presto in bicicletta a farmi le analisi del sangue nel consultorio pubblico. La bici è il migliore mezzo di trasporto della città e l’unica maniera di non pagare i cari parcheggi.
Sapevo che avrei passato del tempo fra tante persone che aspettano i loro turni, alcuni pazientemente in silenzio, altri creando confusione e provocando grandi polemiche sul “cattivo servizio” dell’istituzioni pubbliche.
Di ritorno a casa all’ora di pranzo suona il telefono e cercano proprio me! Chiamano dall’ospedale di Torregalli, il mio emocromo non va, accidenti! Si segnala una forte anemia e mi pregano di recarmi al Pronto Soccorso.
Decido d’andare all’indomani dopo avere sistemato diverse cose in casa (noi donne abbiamo il vizio di lasciare almeno una pommarola in frigo per quelli che rimangono a casa).
Entro nella stanza del pronto Soccorso dove ci sono già altre tre donne anziane con grossi problemi, poi arriva una giovane incinta con dolori all’addome e una vecchia signor distinta ma con problemi di Alzheimer. Il medico un uomo piccolino, brizzolato porta delle scarpe da ginnastica rosse, sembra uno gnomo che saltella da una barella all’altra, scrive al computer, parla con me, da ordini agli infermieri, è simpatico e professionale. Si decide il mio ricovero  in ospedale per capire la causa della mia anemia e per una eventuale trasfusione. Passo al quarto piano, stanza trenta due con vista sulle colline, quella che sarà la mia “agognata vacanza” sono sei letti tutti occupati con ospiti con una età importante, settanta, ottanta, novanta anni!
Un po’ alla volta incomincio a conoscere queste donne anziane e nel frattempo iniziano le mie cure. Appena entri nella stanza a destra c’è Irma, un donnone di novanta cinque anni, sembra un grosso fantasma bianco, bianca pure la sua camicia da notte da lei ottimamente ricamata anni addietro, è lei la protagonista della nostra camera, è veramente in gamba. Il suo segreto per mantenersi così è “tanta lettura e far le parole incrociate”, c’è chi la chiama “La marescialla”. La sua parlata tipicamente toscana, molto colorita le darà qualche problema più avanti.
Poi c’è una donna piccolina Cleila, ma io la chiamo “Prugnetta” perché ha sempre l’aria corrucciata ed entra in contrasto spesso con Irma. I suoi polsi e le sue caviglie grosse scoprono una falsa magra, lei ha ottanta due anni. Il terzo letto è occupato da una donna di settantasei anni, finta bionda, bellissimi occhi celesti. Porta tanti gioielli addosso e si arrabbia quando deve levarsi tutto per andare a fare qualche esame, è molto abbronzata perché era al mare quando ha dovuto interrompere le vacanze per entrare in ospedale. Accanto a me alla mia sinistra, la prima notte c’era una bella vecchietta sofferente di demenza senile. Passava tutto il tempo a “ricamare con le mani” il lenzuolo (in giovinezza era stato il suo mestiere) e chiamava “mamma” alla figlia. Un altro ospite è una donna bonacciona con una eruzione cutanea alle gambe dovuta ad una intossicazione di medicinali che prende per le tante malattie da lei sofferte. In quattro giorni non ha mangiato niente e no si lamenta mai, ha un po’ paura dell’infermieri. Per ultimo sulla mia destra c’è una donna siciliana di ottanta quattro anni. Depressa, arrabbiata e triste. La sua capigliatura giovanile è lì ancorata bene nella sua testa, solo il colore è cambiato dal nero scuro al bianco canuto. Ha le gambe e braccia olivastre e forti. Ha una numerosa e rumorosa famiglia che la viene sempre a trovare.
Le prime due notte sono state un incubo, nessuno riesce a dormire, quasi tutte hanno bisogno di qualcosa o di qualcuno… in ogni caso, fra richieste di “padelle” e cambi di pannolini, la notte sembra trascorrere ma ad un certo punto scoppia il litigio tra Irma e le infermiere; a scatenare l’inferno è la richiesta da parte di Irma di una padella per poter “pisciare!”: l’infermiera urla in malo modo “lei è una mala educata, non si dice pisciare!” Irma risponde: “ma che mi vuoi insegnare te il fiorentino!”…
Io che ho sempre difeso la categoria degli infermieri devo spezzare una lancia a favore della Marescialla, Irma magari non ha usato un linguaggio fine ma quella notte l’infermieri non erano professionali, erano arrabbiatissimi, distratti, etc. Tanto è che all’indomani non mi hanno somministrata la flebo di ferro e così ad altri sono mancati controlli o colazione.
La terza notte è successo qualcosa di strano: dopo le venti e trenta eravamo tutte tranquille in camera, io leggevo “La chiave a stella” di Primo Levi, e sentivo un po’ le loro chiacchiere, ad un certo punto ho chiuso il libro e la sera si è trasformata in uno di quegli incontri serali da ragazze, dove insieme alle amiche e con un bicchiere di vino in mano si incomincia a raccontare storie d’amore, di delusioni, etc.
Di Irma sapevamo già tutto visto la sua esuberanza, ma piano piano tutte raccontano le loro vicende; la bionda piena d’ori racconta del marito morto e delle sue figliole. Lei è in attesa del risultato di una biopsia a un linfonodo, ma non è neanche tanto preoccupata per sé ma bensì per la figliola quarantenne e suo marito che vivono con lei: “sa io faccio tutto per loro, chi sa come sono persi senza di me in questi giorni… tipo a mia figlia piacciono i fagiolini lessi mentre al mio genero in umido, e sa io accontento a tutte e due… bla, bla, bla”.
Prugnetta (ricoverata da quindici giorni) mi sorprende perché man mano che racconta la sua vita, il suo viso si distende e quando parla del marito morto si commuove e lascia scivolare le lacrime sul viso. Ma anche lei ha il pensiero fisso per la figlia che è commerciante e non ha orari di lavoro. Fino ad ora ci ha pensato lei a tutto, e si domanda angosciata come staranno facendo per preparare il pranzo, la cena, i panni da lavare, stirare, e in più c’è il nipotino di dieci anni che va seguito. Ora dovranno svegliarlo presto e portarlo con loro in negozio. E veramente sorprendente come queste vecchie donne italiane con grossi problemi di salute siano angosciate non per sé stesse ma per i figli già persone adulte!
Ad un certo punto  si sveglia la siciliana e incomincia a raccontare in modo cupo una serie di tragedie, fra malattie e morte che neanche una telenovela può contenere e capisco perché ha il dolore stampato sul viso, ma la cosa più strabiliante è quando in modo confidenziale mi racconta sempre seriosa che lei l’altro giorno ha fatto la colonscopia e ha fatto ridere il dottore, “perché sai io gli ho detto: senta dottore io a mio marito non gli ho mai permesso di farlo di dietro, sempre d’avanti, sempre d’avanti! Ed ora che sono vecchia lo prendo per il c… proprio da lei!!!” La verità sono rimasta perplessa, visto che la sua espressione seriosa non cambiava, non sapevo si dovevo ridere, sono riuscita solo ad abbozzare un sorriso.
Quando è arrivato il mio turno per le confidenze ero quasi in imbarazzo, cosa era la mia anemia in confronto a tutte le loro? Intanto mi auguravo di arrivare ad una certa età con una discreta salute e pensavo: forse anche io in un lontano futuro avrò tutta questa dimestichezza, familiarità con padelle, clisteri, pannoloni, niente pudori, niente paure? GULP!
Quella notte era speciale come speciale era la nostra infermiera di turno, Katia. Piccola, mora, grassoccia, sorridente. Ha coccolato ognuna di noi, soprattutto a Irma che è quella che rompe di più le scatole durante la notte. Si sono scambiate barzellette e abbiamo riso tutte, ci ha dato le varie medicine e alle ventidue e trenta ha spento la luce e come una mamma amorosa ci ha dato la buona notte. Non mi crederete, ma abbiamo dormito serene e in pace fino alle quattro del mattino… poi sono iniziate le richieste di padelle!
In pochi giorni ho conosciuto un mondo completamente diverso di quello esterno all’ospedale. Convivenze forzate con altre persone fino ad allora sconosciute, cambio d’orario di sveglia, colazione, pranzo, etc. Poi la vita dei medici, degli infermieri, del personale delle pulizie. Tutti dipendono l’uno dall’altro per far funzionare al meglio la vita del malato.
Come vacanza non è stata il massimo ma come conoscenza umana, grandiosa.    
    

domenica 17 gennaio 2016

Racconti ospedalieri. Historias de hospitales. Il parto, Fiesole




Cari amici, dopo le feste natalizie e i grandi pranzi, lascerò per un corto periodo in “stand by” la cucina per dedicarmi alla mia altra passione: la scrittura.
Inizierò a condividere con voi alcuni racconti “ospedalieri” circa le mie esperienze personali grazie a dio tutte andate bene. Spero le troverete curiose e divertenti. Questo no toglie che magari fra un racconto ed un altro ci possa essere un post di cucina.

Il parto, (Fiesole, 1983-1986)

Ho visto nascere cinque nipoti partoriti dalle  mie sorelle, e sebbene questi parti siano stati tutti dolorosi, dopotutto sono avvenuti in un ambiente molto ovattato per come sono state coccolate da tutti: ginecologi, mariti, genitori e amicizie varie.

Già la preparazione all’evento era segnato da feste per la futura mamma e il nascituro, i cosidetti “babyshowers”, in modo che al momento della nascita il corredo del bebè fosse al completo, dal più semplice ciuccio fino al lettino, insomma c’erano tutti gli elementi di benessere di una famiglia borghese.

Quando è arrivato il mio turno avevo capito che le cose sarebbero andate diversamente, prima di tutto ero in Italia e già i preparativi si sono dimostrati diversi, niente feste pre-evento, il lettino rigorosamente vietato averlo in casa prima del parto (per scaramanzia), come vietato portare la collana di perle al collo durante la gravidanza (il bambino poteva nascere con il cordone ombelicale intorno al collo!). C’era una cura un po’ eccesiva per i tessuti dei vestitini del corredo, solo in puro cottone, lino o morbida lana per proteggere la delicata pelle del bebè. Tutto finemente ricamato a mano con fili di colori tenui e fiorellini delicati.

Mia madre arrivò qualche giorno prima del parto in modo da darmi il suo appoggio; i dolori arrivarono all’improvviso in una domenica invernale, la corsa all’ospedale, e lì ore ed ore a camminare nel corridoio, a urlare come una dannata dai fortissimi dolori, il mio ginecologo non era di turno, c’erano altre donne come me, qualcuna più fortunata con lievi dolori. Medici e infermieri che davano poca importanza alla mia situazione, mia madre un po’ spaesata non capendo la lingua ne la vita in un ospedale pubblico. Faceva un calore soffocante per l’alta temperatura dei termosifoni.

Tante ore dopo, mio marito e io fummo catapultati nella sala parto, purtroppo il parto divenne sempre più complicato, e ci fu bisogno di tagliare e tirare fuori il neonato con la ventosa. All’istante in cui venne alla luce il mio primo bebè, Filippo, dopo dieci ore, il dolore scomparve come per miracolo.

Ancora stordita dall’evento e indolenzita per i punti che mi avevano dato cercai le mie pantofole che nel trambusto del parto erano finite sotto il letto della sala operatoria! Nessuno che mi aiutasse. Lasciai la sala parto camminando claudicante, appoggiandomi sul braccio di mio marito; niente sedia a rotelle, avevo solo partorito, una cosa normalissima e naturale.

Nonostante la mia stanchezza, entrando nella camerata condivisa con altre donne, notai il mio comodino desolato; era completamente vuoto mentre quello delle altre donne erano tutti molto carini;: con tovagliette ricamate, tazzine, zucchero, bicchieri, sale, addirittura alcune con bottigliette con olio d’oliva ( per insaporire l’insipido cibo del’ospedale) Nessuno mi aveva detto che c’era il fai da te quando si entra in un ospedale pubblico!

Quella stessa notte esausta, mi dissi: mai più un altro figlio! Ed invece dopo tre anni precisi e un giorno, ancora una volta grandi dolori, corsa all’ospedale, mia madre di nuovo in Italia, mio marito e io ben preparati con tutto il necessario per il bebè, per me e per sistemare il mio comodino! Il parto fu velocissimo, dopo solo tre ore nacque il mio secondo bebè, Laura.

Versión en español

Queridos amigos, después de las fiestas navideñas y las grandes comidas, dejaré por un corto período en “stan by” la cocina para dedicarme a mi otra pasión: la escritura.
Iniciaré a compartir con ustedes algunas historias de “hospitales” acerca de mis experiencias personales, gracias a dios todas con buen fin. Espero las encuentren curiosas y divertidas. Esto no quiere decir que tal vez entre una historia y otra pueda poner un post de cocina.  


El parto (Fiesole, 1983-1986)

He visto nacer cinco sobrinos paridos por mis hermanas y, si bien estos partos han sido todos dolorosos, después de todo ocurrían en ambientes acojedores por cómo consentían a las parturientas los ginecólogos, mis papás, sus maridos y varias amistades.

La preparación al evento estaba marcado por las fiestas para la futura mamá y el futuro bebé, los llamados “baby showers”, de manera que al momento del nacimiento la canastilla del bebé estaba completa: desde el simple chupón hasta su cuna muy bien arreglada. Estaban todos los elementos de bienestar de una familia burguesa.

Cuando llegó mi turno me di cuenta que las cosas habían sido muy diferentes. Antes que nada vivía en Italia y los preparativos al evento se mostraban desde el inicio muy distintos. Nada de baby showers. La cuna, rigorosamente prohibido llevarla a la casa antes del parto (sería de mal augurio), como también prohibido ponerse el collar de perlas durante el embarazo (¡el bebé podría nacer con el cordón umbilical enrollado en el cuello!). Había un cuidado casi excesivo por escoger los tejidos del vestuario del bebé solo de algodón o finísimo lino, o en lana suavecita para proteger su delicada piel. La camiseta era de algodón por dentro y lana por fuera. Todo finemente bordado a mano con hilos de colores tenues y delicadas florecitas.

Mi mamá llegó unos días antes del parto para ayudarme y darme su apoyo. Los dolores llegaron de improvisto un domingo de invierno. Corrimos al hospital y ahí horas y horas a caminar en los pasillos, gritando como una loca; sentía que se me desgarraba todo el cuerpo. Mi ginecólogo no estaba de turno, había otras mujeres como yo, alguna más afortunada con dolores leves. Médicos y enfermeras daban poca importancia a mi situación; era solo un parto. Mi mamá, desconcertada sin comprender el italiano ni la vida en un hospital público. Hacía un calor sofocante pues los radiadores de la calefacción estaban prendidos a alta temperatura.

Después de varias horas de trabajo de parto doloroso, mi marido y yo fuimos catapultados al quirófano. Ahí el parto se complicó y hubo necesidad de usar fórceps para facilitar la salida del bebé. Pero en el istante en que vino a la luz mi primer bebé, Filippo, después de diez horas, el dolor desapareció como por encanto.

Todavía atontada y adolorida por los puntos que recibí busqué mis pantuflas, que en el alboroto del parto ¡terminaron debajo de la cama del quirófano! Nadie que me ayudara. Dejé la sala de parto caminando claudicante, apoyándome del brazo de mi esposo; nada de silla de ruedas, solo había parido, una cosa normalísima y natural.

No obstante mi situación de inmenso cansancio, al entrar en la habitación compartida con otras cuatro mujeres me di cuenta de la desolación de mi buró; estaba vacío, mientras los de las otras compañeras del domitorio estaban muy bien arreglados: con mantelitos bordados, tazas, vasos, azúcar, sal y algunas hasta con botellitas con aceite de oliva (para condimentar la insípida comida de hospital). ¡Nadie me había dicho que entonces era costumbre italiana traerse todo lo “necesario” de su casa cuando uno entraba en un hospital público!

Esa noche, exhausta, me dije: ¡jamás otro hijo! Sin embargo tres años y un día después: de nuevo grande dolor, una carrera al mismo hospital, mi mamá de nuevo en Italia (comprendiendo casi todo el italiano), mi marido y yo muy bien preparados con todo lo necesario para el bebé, para mí ¡y para arreglar mi buró! El parto fue rapidísimo, después de solo tres horas nació mi segundo bebé, Laura. 

giovedì 14 gennaio 2016

La Barbie



La Barbie

Quella mattina ti sei svegliata raggiante
nel zainetto di scuola
dormiva una Barbie.

Era arrivata dall’America.
S’avvicinava il Natale.
Che grande delusione aprendo
il pacco!

La zia non lo sapeva
che non ti piacciono le bambole,
poi ti sei illuminata
“Gliela regalo a Rezmi!”
il tuo viso
uno splendido sole.

Rezmi, la bimba di carnagione
marroncina ( così dicevi tu),
quella dei campi Rom,
lei che per carnevale si vestì da sposa
mentre tu da Robin Hood.

Arrivata a scuola
hai esclamato felice:
“Rezmi, questo regalo è per te,
me l’hanno mandato dall’America
ma a me la Barbie non mi piace!”

Dalla cattedra si sentì una voce:
“Ché son regali questi?
il superfluo non si regala mai!
Accà nisciuno è fesso!

Avevi solo sette anni,
la tua vergogna fu infinita-

Il maestro non sa che sulla tua scrivania
c’è ancora  la foto di Rezmi
vestita da sposa.
Dal cielo dove lei riposa
ti guarda e gioca con una Barbie
di cui non si vergogna. 
                  
Versión en español


Aquella mañana te despertaste radiante.
En tu mochila de la escuela
dormía una Barbie.

Había llegado de América.
Se acercaba la Navidad.
Que gran desilusión abriendo
el paquete.

Tu tía no lo sabía
que no te gustan las muñecas.
Después te iluminaste
“Se la regalo a Rezmi!”
Tu cara,
un espléndido sol.

Rezmi, la niña de tez
cafecita (así decías  tu),
aquella del campamento Rom*,
ella que en el carnaval se vistió de novia
mientras tu de Robin Hood.

Llegando a la escuela
has exclamado felíz:
“Rezmi, este regalo es para tí,
me la mandaron de América
pero a mi la Barbie no me gusta!”

De la cátedra se oyó una voz:
Qué regalos son estos?
El superfluo no se regala jamás!”
Accà nisciuno è fesso*!

Tenías solo siete años,
tu vergüenza fue infinita-

El maestro no sabe
que sobre tu escritorio
está todavía la foto di Rezmi
vestida de novia.
Desde el cielo donde ella reposa
te ve y juega con una Barbie
de quien no se avergüenza.

*Rom: comunidad de gitanos
* Accà nisciuno è fesso: expresión en dialecto napolitano que significa, “aquí nadie es tonto”

Adriana Altamirano

mercoledì 6 gennaio 2016

Epifanìa, tutte le feste le porta via - Con los Reyes se acaban las fiestas

 Immagini natalizi – Imágenes navideñas 2015









Le tavole imbandite – Las mesas arregladas











Il cibo è servito – La comida está servida













Firenze - Florencia








Auguri di buon anno 2016